Daniela Moretti

Daniela Moretti, in arte DAZ, nasce nel 1978. Si laurea a Roma in Lettere e Filosofia, ma da sempre nutre un forte senso di appartenenza e una grande passione verso il mondo dell’arte in tutte le sue forme, ma il suo desiderio di espressione trova un compimento totalizzante proprio attraverso la scultura e la pittura. Daniela viaggia molto, accumula esperienze di vita, attinge linfa vitale dalle miriadi di potenzialità che la vita può offrirti quando cerchi nuovi stimoli in luoghi che non conosci. Ma questa ricchezza di visione non è vana, non si estingue nei passaggi di tempo, ma lascia una traccia nelle sue opere, rappresentative di quel sentimento scatenante il flusso artistico, che, a sua volta, può ingenerare processi di fruizione nell’altro da sé.

Marco Montori scrive a proposito delle opere dell’artista:

“Nel presente catalogo dell’artista Daniela Moretti, che firma DAZ i suoi lavori, accanto ad opere di un periodo di poco precedente, sono inserite anche quelle più recenti, tutte legate al pensiero dell’evoluzione, inaugurato con la serie OLDUVAI dal nome della località in Tanzania , in cui  sono stati scoperti un serie di manufatti risalenti all’era Paleolitica, fra 1.800.000 e 500.000 anni fa, importantissime per lo studio dell’evoluzione umana. Molti di quei reperti erano amigdale o choppers (asce) preparate per le necessità di quelle popolazioni. Da qui è iniziato per l’artista un processo di riflessione creatrice, relativa a quegli strumenti, veri prototipi tecnologici che instaurano un feconda dialettica fra l’homo sapiens e l’homo habilis e pure faber. E’ così che molte tele della serie Olduvai propongono le forme e il profilo delle pietre scheggiate e acuminate dal lavoro dei progenitori, che sembrano apparire, in molti dipinti,  sotto forma di mascherine o volti schematici, depersonalizzati, ma rappresentativi di una vicenda universale, forse una suggestione da Jasper Johns che nel Bersaglio del 1958, sovrappose 4 faccette uguali,  motivo questo che l’artista reitera nell’arco della sua produzione, come vedremo, anche assieme ad un altro elemento-simbolo, la mano. Questa produzione è proseguita nella più recente serie di quattro Amigdale, precise,  solenni, di grande valore iconico, dove la forma risulta perfettamente associata alla materia naturale della pietra nelle filigrane della pittura.                                                                       

Le immagini di queste pitture, difficilmente oggettivabili, rappresentano suggestioni tratte dal fondo dell’immanenza evolutiva, da cui si dispiegano le forme alternandosi fra pieno e vuoto con utensili di non immediata identificazione, ma comunque alludenti al tema dell’evoluzione. Il corpo, secondo la grande metafora europea del corpo specchio dell’anima, non è separato dal visibile, ma si manifesta per mezzo di esso, anche se le modalità scelte dall’artista tendono all’indistinto, ancora una volta alla transizione fra pieno e vuoto, fra fragile e forte, piuttosto che farsi accaparrare da facili messinscene, o cedere alla tentazione del trompe l’oeil. 

Daniela Moretti, DAZ dipinge l’evoluzione e, con questo gesto ci fa uscire dalla confusione e dall’oscurità originaria, afferrando le forme che sorgono e si cancellano – in alcune tavole delle ultime serie, anche in virtù di scelte cromatiche sfumate,  è quasi  la cancellazione ad esser mostrata – in un processo continuo, di cui le opere di DAZ cercano di fornire la quintessenza come parusia, ovvero come presenza dell’essenza (ousia).”

www.artedaz.it


Il mio corpo è ovunque
7 tele 29×42 acrilico su tela anno 2020

Da circa un anno sto lavorando, su un progetto che riguarda il corpo. Il corpo intenso nella sua totalità di anima e corpo, di spirito e carne, ma anche nel dualismo. Il dualismo che ci porta a vedere la frattura, la scissione tra corpo e mente, anima e carne ci porta a riflessioni lontane, già portate all’attenzione da antichi filosofi. Ma quando ci poniamo di fronte al quotidiano, all’attualità del pensiero, non possiamo fare a meno di ripensare questo corpo che abbiamo, questa anima che curiamo. Nell’ultimo anno sono successe molte cose, a livello personale e collettivo e ho avuto bisogno di ripensare alla filosofia del corpo. Nell’opera che presento, 7 tele ci propongono un corpo diffuso, un corpo che soffre, ma placato nella sua sofferenza, perché ovunque. Dalle parole del critico Marco Montori che ha curato la mostra e residenza, in cui ho presentato questa installazione di 7 tele:
“ Le immagini di queste pitture, difficilmente oggettivabili, rappresentano suggestioni tratte dal fondo dell’immanenza evolutiva, da cui si dispiegano le forme alternandosi fra pieno e vuoto con utensili di non immediata identificazione, ma comunque alludenti al tema dell’evoluzione. Il corpo, secondo la grande metafora europea del corpo specchio dell’anima, non è separato dal visibile, ma si manifesta per mezzo di esso, anche se le modalità scelte dall’artista tendono all’indistinto, ancora una volta alla transizione fra pieno e vuoto, fra fragile e forte, piuttosto che farsi accaparrare da facili messinscene, o cedere alla tentazione del trompe l’oeil. Nonostante il titolo della serie, Il mio corpo è ovunque, si ricerca un’immagine che non si limiti ad un carattere individuale che percepisca solo un’angolatura della forma, in questo senso si batte più il sentiero filogenetico che quello ontogenetico.”

Quest’opera ha fatto si che quella frattura, scissione, mancanza, vuoto, potesse essere riempita, dalla cura del sé, da una carezza universale. Un corpo scisso, diviso in più parti che ritrova se stesso. Al momento sto realizzando, inoltre, un corpo diffuso fatto in più parti realizzato in ceramica, parte di questo percorso, pensiero sul corpo e l’anima.


Serie Odulvai – Le Amigdale

Olduvai è  un importante sito archeologico in Tanzania chiamato anche “Culla Dell’Umanità”. È un insieme di produzioni litiche del Paleolitico comprese tra 1.800.000 e 500.000 anni circa a Olduvai in Tanzania. Questa serie di opere è dedicata alle amigdala dei primi uomini: pietre scheggiate  a forma di mandorla, impiegate dall’homo erectus come armi o strumenti di lavoro. Un utensile unico e per questo necessario. Le tele propongono le forme e il profilo delle punte in pietra come segno grafico, accostando a questo un precedente elemento ripetuto nella produzione dell’artista: i  volti. Volti depersonalizzati ma che al tempo stesso universalizzano un messaggio: il desiderio di esistere, di esserci ricordandoci del nostro passato. La tela è uno spazio, un muro, una lavagna su cui disegnare  linee semplici, quasi come una mappa grafica dell’essere umano. La parte scultorea in creta si propone invece di esprimere in statue, monoliti disumanizzati, un richiamo ad un possibile passaggio dal segno bidimensionale ad una consistenza tridimensionale. Ogni statua porta in sé un elemento in ferro che ne disegna un nuovo significato. Da monolite a culto dell’utensile necessario. In questo senso l’utensile necessario, l’amigdala del paleolitico, può essere nella scultura di Daniela Moretti un ferro inutilizzato, arrugginito o annerito dal tempo. Un oggetto non più indispensabile, che viene riportato  in vita inserendolo nelle sculture. 

Serie Olduvai – L’Installazione

L’installazione, lunga circa 3,50 m per 0,60 m, si appoggia su una tela in canapa e consta di 36 pezzi pezzi in terracotta e di alcune ciotole in rame con elementi raccolti all’interno di un orto botanico dagli spettatori al momento dell’installazione site-specific nel mese di marzo 2019. Il progetto è nato da principio come un racconto che si scompone e si ricompone, dove non esiste un elemento predominante, se non la frattura creata ad arte nelle amigdale. Fratture che richiamano una spaccatura, una crepa come elemento riflessivo, arricchente e non difettivo. Possiamo riempire le crepe, possiamo ripensare la fenditura da cui rinasce altro: nella crepa noi possiamo vedere oltre. Ciò che da principio mi interessava era fare mia l’evoluzione umana: senza nessuna pretesa scientifica desideravo appropriarmi di un lungo momento storico, di un tempo in cui trovare le mie/nostre radici. Dapprima è nata come la fascinazione dell’amigdala e in un secondo momento si sono fatte largo delle realtà totemiche che sento vicine come se fossero divinità protettrici e divinatorie. Ad un certo punto di questo percorso, l’installazione in un luogo naturale come un orto botanico mi ha permesso di ampliare i miei orizzonti, di vedere oltre. Alla fine di questa lunga sequenza di opere, come se fossero reperti ma anche come un banchetto da cui assaporare il desiderio della conoscenza e dell’approfondimento, ho inserito una grande ciotola e 3 più piccole.  Al momento della presentazione di questa installazione ho chiesto alle persone di interagire con quest’opera, di viverla, di sentirla e di donare una parte di se stessi per far sì che continuasse un racconto che partisse da un luogo che rispettasse la terra, come lo avevano avuto i nostri antenati. Al di là di tutte le mie aspettative, senza nessuna ulteriore esortazione, alla fine del periodo installativo (3 settimane) ho trovato le ciotole piene di mille pensieri positivi. Le coppe erano piene di sassi, cortecce, fiori secchi, legni  e pietre scheggiate che sono entrate a far parte dell’installazione. Da qui inoltre, nella restituzione finale, sono nati diversi disegni e un ulteriore scatto nella mia ricerca verso la paleobotanica. 


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