Rimango in attesa. Riflessioni sul nuovo MACRO Museo d’Arte Contemporanea di Roma

In un non caldo pomeriggio d’agosto, dopo ben 7 mesi, sono ritornata al MACRO Museo d’Arte Contemporanea di Roma. 

Utopico/distopico/paradossale: questa la prima sensazione nell’entrare da estranea in quello che per un anno e mezzo è stato un “luogo” che ho vissuto, esperito e costruito. Sono entrata da estranea, scevra da ogni immagine precedente e con la volontà di riappropriarmi dello spigoloso spazio architettonico progettato da Odile Decq, respingente e difficile, che conosco nei minimi dettagli per aver aperto porte, spostato oggetti, salito e sceso scale, attaccato e staccato dai muri, collegato prese, rimasta a terra a toccare il pavimento, assorbito il freddo dell’inverno e il vento caldo dell’estate. Azioni che di solito sono precluse in un museo italiano che non preveda un’azione orizzontale di coinvolgimento. 

Il nuovo curatore Luca Lo Pinto accentua le asperità del complesso architettonico: nudo e crudo senza elementi aggiunti, lo percorro facendo una tabula rasa di nomi e destinazioni. Ricominciare senza pregiudizi e senza aspettative è un atteggiamento che mi si addice. Mi lascio andare a questa possibilità e decido di viverla come se mi inondasse un fiume in piena. Respiro tutta l’aria interna e mi vesto dell’abito che utilizzo sempre quando entro in un qualsiasi museo o alla Biennale di Venezia, con la medesima curiosità e attenzione anche nella lettura delle didascalie. Respiro anche lo spazio e si rimettono in funzione tutti i neuroni dell’architetto che è me e che mi permette di attivare sempre una stratificazione di esperienze. La decisione del curatore di non agire sullo spazio architettonico ma di accettare le volontà dell’architetto mi piace e ritorno a guardare al luogo-museo scorticando dalla pelle la patina dell’esperienza, per poterne fare un’altra, diversa. E mi accorgo che il Museo d’Arte Contemporanea di Roma non possederà mai la potenza e la presenza del Guggenheim di Frank Lloyd Wright, dove l’arte si piega all’architettura per uno specifico volere. Qui l’arte non si piega all’architettura, né l’architettura si piega all’arte né entrambi entrano in relazione paritaria ma rimangono due entità distinte e non connesse. Nel rapporto tra contenuto e contenitore c’è sempre da domandarsi quale sia il tessuto connettivo: nel MACRO Asilo la comunità generava il museo. Qui ancora non riesco a comprendere. Ma forse è ancora troppo presto. 

Mi accingo a sfogliare l’editoriale del Museo per l’Immaginazione Preventiva e le pagine sono innegabilmente all’altezza di un museo di una capitale. La mano del curatore è sotterranea ma presente. Innegabilmente. E l’opera di Emilio Prini sconvolge per il suo intrinseco e estrinseco potere e denuncia il livello del contenuto del museo. Molto interessante l’installazione di Giovanna Silva sulla collezione permanente del Museo accompagnata dai suoni di Lory D, così come il lavoro di Gastone Novelli, la polvere di glitter iridescente di Ann Veronica Janssens aperta all’infinito e l’installazione audio di Sarah Rapson. Sì, innegabilmente un editoriale convincente. 

Ma mentre dichiaro a me stessa tale convinzione, mi sorge una domanda che ormai aleggia da un po’ di tempo, già durante la gestione di Giorgio De Finis. Ogni luogo ha una vocazione particolare, ogni museo si distingue per un elemento specifico che è solo Lui a possedere. Quale è l’elemento specifico del MACRO Museo d’Arte Contemporanea di Roma? E quale deve essere la vocazione di un museo immerso nella contemporaneità? Quale deve essere il suo ruolo nel territorio e nel rapporto con la collettività? Ebbene, rispondiamo a tali domande e smetteremo di fare polemiche e critiche. Il problema sta alla base. Forse Luca Lo Pinto sarà in grado di estrarre l’aura di questo tanto tormentato MACRO. O forse no. Rimango in attesa. 

In copertina: Io nell’opera Il Vuoto di Emilio Prini – foto @Daniele Casolino


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